Quanto è difficile che la tenerezza “contagi” la Giustizia!

di Ornella Favero*

Volevo iniziare una riflessione sulla Giornata di Studi “La tenerezza e la Giustizia” con le tante cose belle che sono successe, a partire da un pubblico numerosissimo accorso sfidando il maltempo e presente fino alla fine, nonostante le fatiche di sette ore di galera. E ancora, gli interventi di esperti di grande competenza introdotti dalle testimonianze delle persone detenute, e poi il coraggio, perché di questo si tratta, di inserire il tema della tenerezza proprio a fianco della Giustizia, in un momento in cui a credere in una giustizia tenera, mite, rispettosa degli esseri umani, anche di quelli che hanno fatto cose orribili, forse non siamo in tantissimi. Però il carcere, che per un giorno ha mostrato un volto gentile, a cui ha contribuito in gran parte una Polizia penitenziaria preparata, disponibile, ben organizzata e soprattutto coinvolta, il giorno dopo è tornato a essere quello che punisce con trasferimenti, rapporti disciplinari, denunce.

È successo che nella mia introduzione alla Giornata di Studi avevo raccontato che mancava purtroppo uno dei miei “redattori”, Paolo, un ragazzo di venticinque anni con una storia disastrata, un padre in 41-bis da 21 anni, una madre in carcere per cinque anni e poi però assolta, una storia che avrebbe dovuto raccontare lui ma non poteva farlo perché era finito in isolamento per una aggressione, nata da un conflitto esploso malamente.

Io vedo lucidamente i comportamenti sbagliati, violenti, per i quali spesso le persone detenute si giustificano con l’orgoglio di dover respingere delle offese, e la reazione di Paolo è stata violenta, ma vedo anche la difficoltà dell’istituzione a trovare strumenti nuovi per affrontare gli innumerevoli conflitti che stanno devastando le carceri. Sembrava però che ci stessimo arrivando, sembrava che si potesse affrontare il conflitto violento scoppiato nei giorni scorsi con la mediazione, che ovviamente non sostituisce la sanzione, ma si affianca con strumenti nuovi alla giustizia tradizionale, e a volerlo fare non eravamo solo noi volontari, ma anche il personale dell’area pedagogica, coinvolto proprio in questi mesi in un progetto di mediazione dei conflitti in carcere. E invece non è bastato, invece Paolo e altri detenuti sono stati trasferiti, ha prevalso la questione della sicurezza, non c’è stato il coraggio di investire su strade nuove come quella della mediazione.

Eppure, non si può pensare che persone finite in carcere da ragazzi, con già delle storie pesanti, improvvisamente imbocchino la strada giusta e non sbandino più. No, questi percorsi sono difficili, sono fatti di fallimenti, di cadute, di ostacoli, di inciampi. E come nel gioco dell’oca, l’istituzione spesso impone di ritornare alla casella di partenza, e così rischia di far solo crescere la rabbia. Aggiungo che la bomba del conflitto con questi trasferimenti (perché altre persone sono state coinvolte e trasferite) non è stata affatto disinnescata: il fatto è che quando fra detenuti scoppia un conflitto, l’Istituzione spesso tende ad affrontarlo con trasferimenti e denunce. Riusciremo finalmente a spezzare questa catena del male?

Mi viene anche da dire che le Istituzioni spesso sono intransigenti con i colpevoli, ma “morbide” quando si tratta di perdonare sé stesse. Un esempio? In questi giorni nelle carceri si stanno attuando le disposizioni della nuova circolare sui circuiti di media sicurezza, e succede che alcune sezioni passino da un regime aperto a un regime “semichiuso” senza che le persone detenute abbiano fatto nulla per meritarsi un simile trattamento. Cresce così la reazione aggressiva, l’insofferenza, la percezione di subire un’ingiustizia, e aumentano inesorabilmente i rapporti disciplinari: ma non si dovrebbe allora fare un colossale rapporto disciplinare a una amministrazione che punisce con una “regressione trattamentale” (si chiama così il peggioramento delle condizioni del proprio percorso rieducativo) anche chi non ha fatto assolutamente nulla per meritarsela?

La Giornata di studi “La tenerezza e la Giustizia” è stata comunque un viaggio complicato e appassionato, anche dentro queste contraddizioni.

Ecco quello che noi della redazione ci siamo portati a casa da quel viaggio:

  • In carcere la questione dell’individuare chi sono le vittime sta diventando particolarmente complessa. Una nostra amica mediatrice ci ha detto “questa volta ho sentito che il focus era tutto verso chi ha commesso reati e c’era meno la voce delle vittime”. Ci abbiamo riflettuto, e sì, se vogliamo parlare di giustizia riparativa in modo canonico, non c’erano tra gli intervenuti vittime che avevano subito un reato, ma noi riteniamo importante aver parlato di altre vittime, come le due madri che hanno i figli con un Disturbo Borderline di Personalità, finiti in carcere per mancanza di posti nelle REMS, ma anche come i due ragazzi detenuti sinti, che hanno raccontato cosa vuol dire vivere l’esclusione a partire proprio dalla scuola.
  • Il progetto con le scuole è stato descritto questa volta da tutti i diversi protagonisti, gli studenti, gli insegnanti, le persone detenute, che hanno spiegato che questo è un progetto che, per chi ha commesso reati e non può riparare davvero il passato, ti permette per lo meno di “riparare il futuro” di tanti ragazzi. A tutti consigliamo di riguardarsi l’intervento dello studente, che ha parlato di immedesimazione, e ha raccontato di aver sperimentato l’isolamento chiedendo a sua madre di chiuderlo in camera senza cellulare e senza social, e di sentirsi in dovere di chiedere scusa per non aver capito prima il dolore di quella condizione.
  • Il disagio dei ragazzi (non vogliamo parlare solo di minori, perché Enrico, per esempio, ha 21 anni ed è nel carcere per adulti, ma resta un ragazzo), dei giovanissimi italiani e stranieri finiti nelle galere per grandi, merita un approfondimento perché sta riempiendo le carceri, e in carcere un ragazzo rischia di accumulare, per le sue azioni irrazionali e a volte rabbiose, altri anni di pena, visto che la gestione dei problemi della sicurezza è sempre attenta a punire più che a considerare la persona. La voce dei ragazzi ci è arrivata con linguaggi nuovi, come il rap di Kento, presente in videoconferenza dal Salone del libro di Torino, “Parli dei detenuti ma non sai chi sono loro, dici non gli interessa né studio né lavoro, vogliono i soldi facili per arricchirsi subito ma questa realtà tu la conosci? ne dubito”.
  • Il massacro che opera tanta informazione sui temi della giustizia, che comporta, come ha sostenuto Vittorio Manes, grande esperto in materia, “effetti distorsivi sulla vicenda processuale ed effetti perversi sui diritti fondamentali delle persone coinvolte”. Forse la risposta forte che possiamo dare è quella sottolineata da Gad Lerner: “Io credo che questo sforzo di fare comunicare il dentro e il fuori sia l’antidoto alla giustizia crudele a cui tutti insieme dobbiamo lavorare”.
  • La faccia crudele della Giustizia: quella di certa antimafia che fa dell’intransigenza e del concetto, ricordato dal giornalista Alessandro Barbano, dell’irredimibilità di tutti i mafiosi i suoi cavalli di battaglia; quella dei processi basati su tante intercettazioni e dichiarazioni di pentiti e pochi riscontri; quella di cui ha parlato l’avvocato Catanzariti per la quale il difensore deve difendere i suoi clienti prima di tutto proprio dalla macchina stessa della Giustizia; quella che arriva ad anni di distanza dai fatti e punisce in modo inesorabile la persona nuova che sei diventato. Questa Giustizia si può contrastare solo, per dirla con le parole del cardinal Martini, se “un’altra storia inizia qui”. Sono le storie che hanno raccontato le persone detenute, senza cercarsi alibi né farsi sconti, ma sono anche le storie che in questi anni ci hanno narrato con generosità tante vittime che hanno accettato di venire in carcere, e le storie dei “magistrati dialoganti” che, come la presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanna Di Rosa e il sostituto procuratore Stefano Musolino, accettano sempre il confronto e non hanno paura di “sporcarsi” con la galera.
  • La faccia che ci ha messo Lorenzo, quando ha capito che Mauro Pescio è uno che sa narrare quello che sembra “inenarrabile”, indicibile, inesprimibile, e ha deciso di raccontare a lui la sua storia, da quando è entrato in carcere da bambino per incontrare suo padre, a quando lui stesso è andato a sbattere contro le mura della galera, all’impatto con la sofferenza delle vittime incontrate nella redazione di Ristretti Orizzonti, all’uscita dal carcere con la salda volontà di diventare un mediatore: tutto raccontato nel podcast Io ero il milanese.
  • Un ringraziamento particolare va ad Adolfo Ceretti, uno dei massimi esperti di Giustizia Riparativa, un grande che sa mettersi su un piano di parità con tutti gli ALTRI, tutti coloro che hanno voglia di confrontarsi, di imparare, di scavare a fondo dentro di sé per conoscere un po’ meglio il bene e il male che c’è in ognuno di noi.

Per finire, credo che in questo marasma che sono le carceri oggi bisogna rimettersi a studiare usando gli strumenti della giustizia riparativa, ma farlo con la volontà di cambiare anche la “giustizia tradizionale”, perché nessuno riesce a pensare al dolore delle vittime se viene “massacrato” dalla Giustizia esercitata da quelli che dovrebbero essere “i buoni” per definizione.

*Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia

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